panificazione

Come si faceva il pane una volta

di Marcella Gioffredi
Tutto cominciava dalla ‘madre del lievito’, ottenuta lasciando di volta in volta un pezzo di pane ancora da cuocere, che veniva fatta riposare in un secchio per il tempo di lievitazione ed alla quale venivano aggiunti: il lievito di birra, sale ed acqua più o meno calda. Il lievito così ottenuto veniva trasferito nella madia e su di esso cadeva la farina passata con lo staccio (‘stacciata’ appunto), che veniva fatto scorrere sulla stecca posta all’interno madia.
Questo momento richiedeva tempo ed energia di braccia, per impastare e rivoltare, impastare e rivoltar a volte anche trenta chili di farina !

panificatrice
panificazione

L’impasto veniva poi passato ‘a bracciate’ sulla spianatoia (tavola bordata su tre lati) per essere tagliato in pezzi.
Con l’aiuto di una mestola di legno, i pani venivano adagiati sulle tavole, (sorta di lunghi e stretti vassoi di legno, bordati, ciascuno dei quali poteva ospitare anche venti pani), ben separati gli uni dagli altri dalle pieghe del telo di lino infarinato che ricopriva il fondo.
Intanto nel forno ardeva un bel fuoco di fascine; ne venivano usate ben tre o quattro per fornata, dipendeva da quanto tempo era passato dall’ultima volta che il forno era stato riscaldato.
Il forno era pronto quando il ‘cielo’ di mattoni cambiava di colore, cioè da nero tornava bianco per l’elevato calore. Seguiva la spazzatura: si toglievano le braci con il tirabrace, un lungo e ricurvo arnese di ferro, quindi con gli spazzatoi si puliva ben bene il piano del forno.
Gli spazzatoi altro non erano che dei bastoni, sufficientemente lunghi da arrivare fino in fondo al forno, ad un’estremità dei quali venivano fissati con una campanella vecchi pantaloni, giubbe smesse o teli di cotone, purchè fossero di stoffa robusta. Per pulire bene il forno era necessario sciacquare gli spazzatoi, in recipienti a portata di mano o meglio in qualche torrentello vicino.

Occorreva quindi sapere se la temperatura era idonea o meno per la cottura del pane: per fare questo non si usavano termometri, bensì un pugno di pasta di pane, che dopo l’aggiunta di un po’ di zucchero veniva stesa sulla pala di legno, cosparsa di olio ed infornata. Il risultato era una schiacciata dorata e profumata.
Questa fase, però, non poteva protrarsi a lungo per non togliere calore al forno e compromettere così la cottura del pane.
I pani venivano passati uno per uno dalle tavole alla mestola tirando con un gesto deciso il telo per le pieghe. Aveva così inizio la messa in forno: dal telo alla mestola, dalla mestola alla pala, già appoggiata alla stretta imboccatura del forno e cosparsa di farina gialla per evitare l’aderenza del pane in lievitazione con il legno. Con la pala si introducevano i pani nel forno tenendola sollevata e sfilandola, dopo, con un rapido movimento all’indietro. La disposizione dei pani richiedeva una certa abilità per impedire che si baciassero tra loro, altrimenti ne sarebbe risultato un pane con la crosta irregolare e ruvida lungo i lati.

Non si poteva riaprire il forno prima di un’ora, ed a quel punto cominciava a spandersi intorno l’inconfondibile odore del pane.
Dalla bocca del forno si affacciavano grossi pani alti e dal bel color biscotto. Per una o due volte veniva controllato che la cottura fosse uniforme, cioè veniva scambiata la posizione dei pani al centro, già cotti, con quella dei pani ai lati. I più erano già cotti ed allora, velocemente perché scottavano, venivano presi in mano uno ad uno e, con uno spazzolino di saggina, privati dei residui di cenere e di farina. I pani, tutti in fila, raffreddavano, poi, sulle tavole, ma stavolta senza teli.
Nel frattempo veniva infornata un’altra decina di pani: quelli che sarebbero divenuti ‘cotti in bianco’, più bassi e più chiari per la temperatura ormai smorzata.
Il calore del forno si manteneva anche dopo questa seconda infornata, tanto che bastava per cuocere dei dolci o per tostare il pane o per asciugare i teli.

In estate era preferibile fare il pane di primo mattino perché con il salire della temperatura si rischiava di ‘farlo passare di lievito’; per il motivo contrario, in inverno, era meglio scegliere la tarda mattinata.
L’intera lavorazione durava circa quattro ore.