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Racconti emozioni vissute a Torri

Ricordo di Torri

di Natale Rauty

Il mio primo ricordo di Torri risale al lontano periodo dell’infanzia, intorno agli anni Trenta del secolo scorso. A quel tempo passavo buona parte dei mesi estivi nella zona di Valdibure, in una casa della nonna, la cui strada privata di accesso era da tutti usata come scorciatoia della via comunale. Quasi tutti i sabati, nel primo pomeriggio, ero solito aspettare il passaggio di una piccola carovana di due o tre uomini ed altrettanti muli, che dopo la ripida salita facevano una breve sosta sull’aia.

Erano uomini di Torri, che avevano portato i loro prodotti al mercato cittadino ed ora risalivano il monte lungo la via di crinale, per raggiungere, forse a notte fonda, il loro paese. Nella mia fantasia di ragazzo quella piccola carovana sembrava appartenere al mondo dell’avventura, e la lontana Torri, per la quale si parlava di sei-sette ore di cammino, aveva il fascino di un mondo inesplorato, una sorta di mitico Far West, che mi sarebbe piaciuto raggiungere seguendo la carovana.
Ho conosciuto il paese di Torri tanti anni più tardi, quando cominciai ad interessarmi al territorio delle vallate della Limentra. A questo proposito voglio ricordare che proprio il castello della Sambuca fu l’argomento del mio primo lavoro storiografico. Nel 1964, quasi quaranta anni fa, quando ancora impegnato a pieno nell’attività professionale ero agli esordi del mio interesse per le ricerche storiche, pubblicai il mio primo articolo, dal titolo La rocca della Sambuca, che non ebbi l’ardire di proporre al prestigioso «Bullettino Storico Pistoiese», ma che fu accolto, con mia soddisfazione, dal periodico della Camera di Commercio.Un più intenso rapporto con la storia di questo territorio ebbe inizio parecchi anni dopo, al tempo del sindaco Ziani, quando fu impostato per l’anno 1991 il programma celebrativo del settimo centenario dello statuto del Comune della Sambuca, al quale dettero il loro contributo la Società pistoiese di storia patria ed il Gruppo di studi Alta Valle del Reno. In quello stesso periodo, su invito di Paolo Gioffredi, infaticabile organizzatore delle attività ricreative per il mese di agosto a Torri, fui invitato a partecipare all’inaugurazione del sentiero naturalistico La Ca’-Pozze di Brigida. Fu così che nell’agosto 1991 arrivai per la prima volta a Torri, naturalmente in automobile e non, come avevo sognato da ragazzo, attraverso i lunghi sentieri dell’Appennino, dietro le carovane dei muli. Nel 1992, fui invitato nuovamente a partecipare ad una giornata culturale, con una relazione sulla più antica storia del paese.
Nella ricerca del materiale per la mia relazione ebbi un’ulteriore conferma che il territorio pistoiese è privilegiato da una documentazione archivistica talmente ricca, da consentire di ricostruire, fin dalle età più antiche, le linee storiche essenziali anche per centri abitati minori ed isolati. Mi fu così possibile ricordare la più antica testimonianza documentaria di Torri, offerta da una pergamena del 982, un atto di donazione del conte Lotario dei Cadolingi alla cattedrale di Pistoia. Delle quattro terre donate dal conte, una si trovava in loco Turri ed era coltivata dal ‘massaro Asprando’, il più antico abitante di questo paese del quale fosse rimasta memoria. Mi resi conto che questa notizia era stata accolta con molto interesse dal pubblico, e non mi meravigliai, qualche anno più tardi, quando gli abitanti di Torri vollero istallare al centro del paese una lapide in memoria del loro antico progenitore. Curioso destino quello del massaro Asprando, che, mentre dissodava con fatica quotidiana queste terre avare, mai avrebbe pensato che di lui sarebbe rimasta memoria a più di mille anni di distanza.
Su una concreta base documentaria mi fu possibile ritrovare le tracce di Torri fin dall’alto Medioevo, quando su queste pendici montane le consorterie longobarde si erano stanziate in armi contro la linea fortificata bizantina; ed in seguito quando i signori di Stagno, anch’essi di origine longobarda, avevano dominato in queste vallate innalzando i loro castelli a Treppio ed a Torri. Una traccia di questa antica origine offre lo stesso massaro Asprando documentato nel 982, che portava, a distanza di più di due secoli dalla fine del regno dei Longobardi, il nome che era stato di un re di quella gente. Ma non mancano tracce di questo tipo molto più recenti: basti pensare che lo stesso nostro amico Paolo Gioffredi porta l’esito di un nome tipicamente germanico, Gottfried (in italiano Goffredo), composto secondo l’usanza onomastica longobarda, da due distinti vocaboli: Gott (Dio) e -Frieden (pace).
La mia relazione, che aveva come termine cronologico il periodo comunale, si concludeva con il ricordo dell’accordo del 1319, stipulato tra il Comune di Pistoia ed i conti Alberti, a seguito del quale il Comune cittadino aveva preso possesso del castello di Torri con un manipolo di balestrieri ed aveva insediato il nuovo podestà, con giurisdizione su Torri, Treppio e Fossato. Anche questa notizia sollecitò la fantasia dei Torrigiani, tanto che pochi anni dopo vollero realizzare una rievocazione storica in costume di questo episodio della loro storia, che da allora viene ripetuta ogni anno nel mese di agosto.

Un impegno assai più assiduo ebbi con Torri nei tre anni nei quali diressi il programma per il Dizionario toponomastico della Sambuca. Anche in questa occasione l’elemento di raccordo fu come sempre Paolo Gioffredi, al quale avevo delegato la ricerca per la vasta regione compresa tra la Limentra orientale e la Limentrella. Il frequente controllo e ordinamento delle numerose schede, nonché il confronto del materiale raccolto sul campo con quello offerto dalle fonti documentarie, mi permise di approfondire la conoscenza di questo territorio antico. Da allora divenne una tradizione il consueto incontro culturale a Torri, tenuto nel mese di agosto per un intero decennio, dal 1992 ad oggi; appuntamento al quale non sono più riuscito a sottrarmi per le cortesi insistenze di Paolo Gioffredi,
Anche se qualche volta ho faticato a trovare l’argomento della relazione, devo dire che ho sempre apprezzato l’interesse che gli abitanti di questo piccolo paese hanno dimostrato per la loro storia, anche di quella più antica e dimenticata. Ne costituiscono testimonianza il numeroso pubblico presente agli incontri culturali, il dibattito che spesso si apriva sul tema delle relazioni, le iniziative pubbliche per la lapide commemorativa di Asprando e per la rievocazione dell’insediamento del podestà.
Del resto il paese di Torri non è nuovo a lodevoli iniziative per il recupero delle antiche memorie, soprattutto per l’intensa ed apprezzata attività che l’Associazione per lo sviluppo turistico di Torri ha svolto negli anni passati, con l’organizzazione di incontri culturali e con l’impianto di una ben fornita biblioteca. All’attività dell’Associazione paesana si è aggiunta poi l’iniziativa di privati che hanno saputo organizzare con pochi mezzi e pochi aiuti, ma con tanta buona volontà e tanta passione, un piccolo museo degno di ogni lode.

Si va a “ricogliere”!

di FRANCO MATTEONI

Il castagneto del Volotto dista dal paese un quarto d’ora a piedi, percorrendo la mulattiera che da Torri conduce a L’Acqua.

Oggi si deve andare a ricogliere perché le castagne sono cascate quasi tutte sulle roste, già belle pulite come il pavimento di casa. Appena tornato da scuola, ho lanciato la cartella in un angolo del pavimento della cucina, (ho mangiato la refezione preparata dalla Leonetta in classe, nel tegamino di smalto rosso col manico), mi sono levato il grembiule nero e il fiocco azzurro – tutto sgualcito – e sono partito con le mie sorelle, allegro per la novità, con il rastrellino di legno sulla spalla e la sacchetta col cavicchio infilata nella cintura dei pantaloni.

È una bella giornata di fine di ottobre, c’è un bel sole, l’aria, già frizzante, stimola la voglia di correre e saltare. Da pochi giorni ho messo i pantaloni lunghi di lana e sento le gambe belle calde e protette, anche se, rispetto ai calzoni corti, un po’ legano nei movimenti. Le mie sorelle hanno ognuna un rastrello grande, la sacchetta e golfini e gonne di lana. La mamma è già andata nel castagneto per rifinire le roste e bruciare le foglie secche e i cardi. Bisogna sbrigarsi perché il babbo sale da L’Acqua coi muli per caricare le balle piene di castagne e portarle al nostro seccatoio prima che faccia buio. Passando dal Volotto salutiamo Lessio, vestito con giacca e pantaloni di velluto e un cappello nero a falde. Gli chiedo dove sono la Nerina e la Bianchina, lui mi risponde che sono nella stalla a mangiare il fieno; vorrei andare a vedere le due pecore ma non c’è tempo, dobbiamo sbrigarci. Continuiamo a scendere per la mulattiera, passando sotto alla casa e al seccatoio del Volotto.

Guardando sotto strada, vediamo la mamma intenta a rastrellare le foglie e buttarle su un monticello fumante: gli urlo che stiamo arrivando e lei ci saluta sorridendo. Addosso al tronco di un castagno ci sono alcune balle già piene di castagne: ci metto le dita dentro e ne sollevo una brancata: sono belle lucide, alcune scure e piccole, altre grandi e marrone chiaro, altre ancora di un colore rossiccio. Comincio da una rosta dove ci sono tante castagne, mi piego in avanti e le raccolgo con due mani e le butto nella sacchetta che pian piano si gonfia e penzola sempre più pesante tra le gambe; quando è colma fino all’orlo vado svelto verso il castagno dove ci sono le balle e svuoto la sacchetta, poi, correndo, torno alla mia rosta e continuo a raccattarne. Ci sono anche dei cardi semiaperti da cui si affacciano -o si nascondono- le castagne che non sono uscite cadendo: infilo un dito nella fessura ma mi buco e lo tiro via, poi ci riprovo aprendo il cardo col bordo della scarpa. Sento dei tonfi fitti qua e là, tutto intorno: sono i cardi che cascano e li vedo rimbalzare sulla terra mentre le castagne escono. Ora ci sono tanti cardi semiaperti, li batto col dorso del rastrellino per farli aprire del tutto, poi raccolgo le castagne e riempio un’altra sacchetta che corro a vuotare nella balla: voglio battere le mie sorelle. Però è faticoso e ho le dita rosse dalle punture dei cardi e quasi quasi mi fermo a riposare. Al viaggio successivo mi metto a sedere con la schiena contro una balla, la sacchetta ancora piena tra le gambe, appoggiata sul muschio. Ho fame, chiamo le mie sorelle: la merenda è lì, nel tascapane, sopra la balla. Prendo due fette di pane con la frittata di patate dentro e me le mangio con gusto mentre guardo per aria quegli alberi alti, con i rami quasi spogli che si protendono verso il cielo azzurro.

Mi piace il castagneto, in questo periodo è vivo, si sente la gente chiacchierare, qualcuno chiama, una voce di donna stridula prende in giro un uomo provato dalla fatica; qualcuno passa piegato in due dalla pesante balla che porta sulla schiena. Penso che siamo fortunati ad avere i muli che ci portano i sacchi in paese.

Arriva il babbo! Fiorello, il cavallone nero con la stella bianca in fronte, guida la fila dei muli e si ferma vicino ai sacchi. Corro dal babbo che mi chiede quante castagne ho raccolto e io gli faccio vedere la mia balla quasi piena, è contento di vedermi. Tira il cavallo per la cavezza e lo fa avvicinare, poi apre gli ancini incrociati sul basto, la mamma arriva e lo aiuta: mentre lui si piega in avanti e mette la testa e le spalle, quasi fino a toccare terra, contro una balla piena, lei la solleva dall’altro lato finché il babbo ha il sacco sulle spalle. Si dirige verso il basto, scarica la balla di traverso sugli ancini: il basto si abbassa verso terra, il cavallo però se lo aspetta e punta le zampe per non ribaltare. Poi, messa un’altra balla dall’altro lato, il babbo lega con le corde i sacchi al basto. Intanto Gino ha caricato un mulo e il babbo va ad aiutarlo a caricare il secondo mulo. Io osservo le bestie mansuete che aspettano tranquille sgranando le castagne tra i denti gialli e potenti. Vorrei salire sul cavallo, ma è troppo alto per me e mi fa un po’ paura. Per oggi la ricoglitura è finita, prima di buio bisogna arrivare in paese per scaricare i sacchi e riempire il seccatoio. Sono sfinito, sulla salita prima dei Prà inciampo e quasi cado, la mamma e il babbo ridono, le sorelle mi prendono in giro. Intanto i muli salgono sulla ripida salita, ondeggiando i basti e a strattoni; mandano avanti la testa e il collo, come volessero prendere delle brevi rincorse. Fiorello è in testa e procede da solo senza bisogno di essere guidato, conosce la strada a memoria, il babbo sta dietro, ogni tanto affianca un mulo per tirare un canapo o aggiustare un ancino. Finalmente arriviamo in paese, il babbo e Gino scaricano il cavallo e i muli e portano le balle sull’aietta, vicino all’ingresso del seccatoio. Dal buco di una pietra della parete, vicino alla gronda del tetto, esce del fumo grigio: è un sasso scalpellinato a formare un sole, il buco tondo al centro, con dei raggi intorno. Ma il fumo esce anche dalle lastre del tetto e dalla finestra che guarda la piazza, al cui davanzale è appoggiata una scala a pioli in legno. Vedo uno che sale sulla scala portando sulla spalla un corbello colmo di castagne, che regge con un braccio, mentre con l’altro si regge; delle braccia spuntano all’improvviso dalla finestra e prendono il corbello che riappare poco dopo vuoto, l’uomo scende e se ne carica sulla spalla un altro: è un via vai continuo di corbelli pieni e vuoti.

Intanto il cavallo e i muli sono stati scaricati, rifatti i canapi e aggiustati i basti, Fiorello si volta: va verso il lavatoio del Pero, i muli dietro, come carri di un treno: vanno a bere alla pilla, la loro giornata di lavoro, per oggi è finita. Per gli uomini no, continuano a scaricare corbelli nel seccatoio. Scendo a vedere chi c’è dentro: non si vede niente, solo una cappa di fumo che ristagna all’altezza dell’architrave della porta e il bagliore di un fuoco dove bruciano lentamente dei grossi ciocchi di legna di castagno. Entro e sento delle voci, vedo il viso della nonna Annetta illuminato dai deboli bagliori del fuoco, è seduta su una seggiola bassa e sta filando la lana con la rocca, mi chiama e mi dice di entrare. C’è un bel calduccio dentro, però gli occhi mi bruciano, mi lacrimano, devo abbassarmi per non respirare il fumo, mi accosto con la schiena alla parete e vedo altre donne che sferruzzano e chiacchierano. Mi siedo sulla panca e mi scaldo le mani e i piedi.

Sopra le nostre teste si sente un rumore sordo, come uno sfregamento, un rotolìo di castagne. La nonna mi chiede quante ne ho fatte; tante, rispondo. Ora il caniccio sarà quasi pieno. Attizza il fuoco, mi dice la nonna, butta su quell’altro ciocco ché, se si spenge il fuoco, addio bene mio! Esco perché gli occhi mi bruciano troppo: fuori è quasi buio, corro verso la piazza per vedere se c’è qualche ragazzo, ma non c’è nessuno. Fiorello sta tornando dall’abbeverata e, seguito dai muli, scende la breve stradina che porta alla stalla, dove Gino e il babbo stanno aspettando. Gino fa entrare il cavallo nella stalla, gli slaccia il sottopancia e la cinghia davanti; per togliere quella di dietro, a forma di cappio, prende la coda e la tira in alto per liberare la cinghia, poi solleva il basto inarcando la schiena e buttando il corpo all’indietro, si gira e lo posa su un tavolaccio; Fiorello sta fermo, ogni tanto ha come un fremito e nitrisce piano, e batte gli zoccoli sul pavimento, quasi a dire a Gino: sbrigati che voglio andare alla greppia. Intanto il babbo è salito in capanna, lo raggiungo e vedo che prende una forcata abbondante del fieno dal monte – arriva fino al tetto della capanna – e la butta giù nella greppia; poi prende un secchio e comincia a tirare su l’acqua col palmo della mano e con gesti rapidi la butta sul fieno nella greppia, tenendo il secchio tra le gambe lo innaffia in modo uniforme, andando avanti e indietro sul pavimento di tavole: sai mi dice, il fieno umido lo mangiano meglio le bestie. All’improvviso le gambe mi fanno “Diego Diego”. Babbo, sono stanco vado a casa. Ora vengo anch’io, dice.

Mentre trascino le gambe sulla salitina, dalla stalla a casa, penso a come fanno il babbo, quegli uomini e quelle donne, a resistere tutti i giorni a fare dei lavori così faticosi.

Una sera di ottobre

di Franco Matteoni

E’ troppo bello per andare a letto subito.Apro la finestra e la persiana: la notte mi viene incontro amica, e mi affascina.Solo una falce di luna,( gobba a ponente: luna crescente), illumina la natura che riposa; i suoi raggi mi arrivano come rapidi dardi proiettati dalle superfici delle foglie, vibranti sotto la leggera, tiepida brezza notturna.
E irrompe la magìa del silenzio, interrotto solo dai suoni, dai versi della natura: il fruscìo delle foglie, l’urto, (ma come, così forte?), di una foglia secca che cade sulle lastre di pietra; rumore di foglie rotte dal calpestìo di un animale notturno; battito d’ali; il canto di una civetta: ora conto, se canta tre volte porta male: succederà qualcosa di brutto.Sorrido di questa credenza che ho sentito asserita come una verità paurosa fin da bambino.

Come può essere che in questa notte così dolce un piccolo uccello dalle morbide piume e dai grandi occhi possa preannunciare il male? La civetta canta, canta senza fermarsi tre, quattro, cinque volte, ho perso il conto; stanotte il suo è un canto allegro: annuncia che la vita è in corso, anche nel buio.All’improvviso un ruggito di leone riempie lo spazio e lo satura, ogni altro rumore svanisce. Poi un altro diverso, proveniente da un altro punto.Dove sono? Sono forse in Africa?Sono, finalmente, riuscito a raggiungere la mitica Abissinia protagonista dei racconti serali del babbo?
No, sono a pochi chilometri da Pistoia, sono nella casa in cui sono nato; sono appoggiato con i gomiti sul davanzale di pietra scalpellinata della finestra della mia camera.Sono i bramìti dei maschi dei cervi in amore: sono grida d’amore di queste creature che hanno occupato l’ambiente che gli uomini hanno abbandonato perché non hanno più saputo amarlo.Ora sono loro che proclamano alla luna, all’aria agli animali notturni, al bosco, che stanotte è una notte d’amore.

Le case, chiuse, dalle finestre sbarrate da mani frettolose, respingono questi appelli amorosi; il paese è deserto; è iniziato un nuovo, lungo e freddo letargo edilizio; solo tra molti mesi la gente, per un breve periodo, si riapproprierà del giorno e della notte, ma sarà come l’emozione fugace di un’illusione amorosa: la gente non ama più le proprie case, il proprio paese, i propri campi, i boschi, gli animali, la luna e le stelle.Stanotte io, solo, privilegiato, ho aperto la mia finestra e la mia camera, come una cassa acustica vivente, riceve e rimanda lieta i suoni che la natura diffonde senza posa, fiduciosa che qualcuno, prima o poi, li accolga nel suo cuore.